Anche se ora sei qui, so che cosa pensi di me... altre persone pensano lo stesso. Chiunque mi parli, pensa lo stesso, chiunque venga in qualche modo a conoscenza della mia storia.
Dicono che ho reagito con troppa violenza, che avrei dovuto rimanere più calmo, che non è così che si risolvono i conflitti. Sai qual è il problema? Che è quello che ho fatto. Sono rimasto calmo, non ho reagito con violenza, ho provato a risolvere tutto comportandomi da persona matura, e l'ho fatto per anni. Ha risolto niente, questo modo di fare? No. No, altrimenti non mi troverei nella posizione in cui mi trovo.
Tutti quelli che conoscono la mia storia, non la conoscono perché l'ho raccontata io, ma perché l'hanno vista da fuori, da lontano, l'hanno sentita raccontare a qualcun altro.
Ovviamente, in questa situazione, sono io l'antagonista, sono io l'orco cattivo, il re malvagio, il mostro, la belva. Le favole funzionano così.
Il Cacciatore è buono, perché libera Cappuccetto Rosso, poco importa che lui e il Lupo (che chiamano addirittura "cattivo", come se fosse parte del suo nome, intrinsecamente una fetta della sua identità) stiano facendo la stessa identica cosa: cacciare. Al Cacciatore è dato di sparare e uccidere, al Lupo, che usa come armi la sua astuzia e la sua forza, e non un fucile caricato con piombo e polvere da sparo, invece è precluso fare lo stesso. Due pesi, due misure. E alla fine il Lupo viene anche ucciso... e questo non significa forse che anche il Cacciatore è un assassino?
Ti chiedo di leggere la mia storia, e giudicare da te se ho esagerato oppure no.
Troverai questa storia certamente anche da altre parti, raccontata da persone che non sono me, persone che hanno un interesse particolare nel dipingermi come questa figura brutale e insensata, questo... Moloch... che può essere calmato solo da olocausti di sangue. Ora tocca a me, parlare di me stesso. Tocca a me dirti chi sono.
Non mentirò, questa è una promessa: ciascuna delle mie parole dirà la verità, soltanto la verità. Non ti tacerò nulla, e sai perché? Perché voglio creare un legame con te.
Non sono mai stato sincero con gli altri, non perché io sia un bugiardo compulsivo, ma perché non ho avuto altra scelta. Uhm... Con te è diverso. So che sei qui per capirmi, che sei sinceramente curioso, e che non desideri solo giudicarmi. Vuoi sapere la verità, anche perché per ora quello che sai su di me è che sono un mostro.
Ma ora che sei qui, che stai leggendo le mie parole... sinceramente... ti sembro un mostro? Ti sembra che io sia questo barbaro privo di raziocinio, questo tiranno che a sangue freddo uccide e distrugge e saccheggia, un cane rabbioso da tenersi dietro una rete robusta, con un collare di ferro e una spessa catena?
No, vero? I mostri sono altri. Quelli veri non sanno nulla: sono ignoranti e della loro ignoranza si fregiano, gonfiano il petto alle loro insensate convinzioni, non si fermano a parlare, a spiegare le loro convinzioni, perché non c'è niente in quelle scatolette craniche che si trovano, buone per confezionarci il tonno e non un cervello umano pensante.
Dunque, per te che non sei ancora in fuga, per te che stai rimanendo ad ascoltarmi, questo è il dono della mia storia:
Dicono che sono nato in Wisconsin, perché è lì che mi hanno trovato. Lo so che ho un nome che suona terribilmente russo, ma è il nome che mi ha dato la mia prima famiglia: sono loro ad avere origini russe. Sorpreso? Di solito i cattivoni dei film sono russi, per questa cosa... razzista... per cui gli americani devono sempre vedere i russi come il nemico, ma sorpresa sorpresa, sono statunitense anch'io.
Il mio primo "padre" aveva questo cognome bellissimo, Korolkrovi, e allora lo hanno messo anche a me. Suona bene, non è vero? Rotola sulla lingua che è un piacere. Korolkrovi. È un cognome estremamente raro, probabilmente una variazione del più comune Korolkov, che era anche il cognome del campione olimpico di salto, con il cavallo e non con i suoi piedi, nel millenovecentoottanta.
Fatto sta che con lo stacco giusto, Korol' krovi, il mio cognome significa "re di sangue". Sembra adatto, non è vero? Un nome da vero cattivone. Per molto tempo non ho avuto la benché minima idea di cosa significasse.
Quanto al mio nome, me ne hanno messo uno assai più comune, Vladislav. Quello sapevo che cosa significava invece. Ed era su quello che mi sono concentrato per tanto tempo.
Lo sapevi che tutti i nomi che iniziano per "Vlad" derivano da un unico termine slavo, volod, che vuol dire "governare"? Per un bambino senza nulla, era una convinzione solida a cui aggrapparsi: che un giorno avrei avuto qualcosa da governare. Sognavo di essere il figlio di una famiglia reale, come Anastasia... te lo immagini? Ero un bimbetto con la faccia rotonda, i capelli ricci intorno al volto, le guance rosee... e credevo in un futuro migliore, perché il mio presente non era granché.
Neanche mi ricordo a che età cambiai casa, e famiglia, per la prima volta. Ero troppo piccolo, ovviamente, e i miei ricordi sfumano gli uni negli altri, così che non ricordo più chi è il padre con gli occhiali, chi quello con i capelli biondi, a chi piaceva leggere il giornale prima di andare a dormire e chi era che mi colpiva le nocche con il cucchiaio di metallo se mi lamentavo di qualcosa.
Imparai molto presto che io non ero come gli altri bambini: i figli delle altre famiglie avevano una sola mamma, un solo papà, e li avrebbero avuti per sempre. I miei, invece, cambiavano un po' troppo spesso: mi affezionavo a loro, come fanno i cuccioli, e poi sentivo tutto il dolore di venire abbandonato.
Non ti sto chiedendo pietà per questo: so che sono migliaia i bambini come me, negli Stati Uniti d'America... migliaia, che non hanno una famiglia loro e che vengono scaricati come pacchetti in questo sistema che chiamano "Foster Care". Ho un'opinione molto bassa della Foster Care, sai? Mi immagino a crescere in un orfanotrofio, per tutta la mia infanzia con gli stessi bambini, e mi dico che sarebbe stato certamente meglio.
Avrei potuto fare amicizia, avere legami fraterni con altri miei pari... e non sentire quel buco nello stomaco ogni volta che venivo passato a qualcun altro, quella voce velenosa nel cervello che mi diceva che non ero abbastanza, no, non ero amabile, per questo l'ennesima famiglia aveva deciso di non adottarmi, perché ero un mostriciattolo orribile, perché non ero come gli altri bimbi.
Ricordo che... ricordo che ipercompensavo. Ero un bambino straordinariamente docile, forse anche per via delle punizioni che avevo subito ripetutamente da piccolissimo.
Una volta vidi un bambino, in un negozio, che piangeva disperatamente e batteva i piedi. Pensai che si fosse fatto male, mi avvicinai a lui, provai a controllare se per caso non stesse sanguinando, se non avesse qualche osso rotto.
Avevo sei, forse sette anni ed ero andato a comprare del cibo insieme alla mia "mamma" del tempo, e c'era questo marmocchio nel bel mezzo della corsia che piangeva con la bocca spalancata. Non era da solo, c'era suo padre di lato a lui. E non sembrava ferito.
La mia "mamma" del tempo non ci faceva molto caso: stava cercando di capire che tipo di riso comprare, era a qualche metro di distanza da me, e io ero un po' come paralizzato dal pianto dell'altro bimbo.
Scoprii presto che il motivo per cui il marmocchietto stava piangendo non era il dolore, o l'angoscia, o la paura, ma il fatto che desiderava un giocattolo. E suo padre gli aveva detto "no", perché il giocattolo in questione era decisamente troppo costoso. Ascoltai quel pover'uomo che ripeteva ancora e ancora che avevano già comprato troppi giocattoli per quella settimana, che tanto aveva dei nuovi pupazzi a casa con cui giocare, e che l'avrebbe portato al parco se avesse smesso di piangere. Il marmocchietto non accennava a smettere di lacrimare e strillare come un rana nel periodo degli accoppiamenti, testa in su e via di rumoroso gracidio.
Ci rimasi malissimo: io non chiedevo mai nuovi giocattoli e quando piangevo cercavo di farlo di nascosto, per non dare dispiacere agli adulti che si prendevano cura di me. La mia faccia era raramente bagnata dalle lacrime e quando questo succedeva era per colpa del dolore, magari ero caduto e mi ero sbucciato un ginocchio, oppure della tristezza, quando pensavo che non avrei mai più rivisto la mia famiglia del momento, o quando litigavo con un amichetto nel vicinato che mi piaceva particolarmente.
Piangere per un giocattolo era una cosa inconcepibile per il me seienne.
Mi sentii triste, vedendo quella scena, ma anche... forte. Come se io fossi fatto di una pasta diversa da quella del marmocchio che piangeva nel mezzo della corsia. Come se io fossi migliore.
Quel Natale, la mia "mamma" del tempo mi chiese che cosa volessi in regalo.
«Niente» Dissi tutto fiero «Io non ho bisogno di niente!». E gonfiai il petto.
Che sciocco che ero, a rifiutare quel poco che mi veniva offerto gratuitamente. Già non erano che briciole e io le rifiutavo! Ricevetti comunque un regalo per Natale, ma non si trattava di un giocattolo, bensì di una grossa stecca di cioccolato fondente.
Odiavo il cioccolato fondente, come molti bambini preferivo il sapore più dolce e ricco di quello al latte, ma poiché volevo mostrarmi forte, e diverso dagli altri, dichiarai che quello era il mio dolce preferito ed abbracciai con tutta la forza che avevo la mia "mamma" del tempo. Fu l'ultimo Natale che passai con lei. Non importava che io fossi frugale, accontentandomi di assai poco comparato agli altri bimbi, o che io fossi affettuosissimo: non era stato abbastanza. Non meritavo di stare con loro.
Ancora oggi che sono adulto mi chiedo quale fosse il problema, perché mai venissi rifiutato così spesso... forse ero un bambino bruttissimo, non saprei dire. Non ho fotografie della mia infanzia e i ricordi che ho del mio proprio volto sono pochi e certamente distorti. Sì, forse ero un bambino particolarmente brutto, pertanto le famiglie preferivano passarmi ai miei prossimi affidatari ed attendere l'arrivo di un bambino un po' più bello, o forse fu solamente sfortuna: molte delle famiglie affidatarie avevano già più di un bambino, magari facevano quella cosa di prendere in affidamento gli orfani solo per potere godere dei sussidi extra, non perché fossero minimamente interessate ad adottare ancora.
Ed è una cosa nobile, no? Almeno in teoria, dare una casa in cui stare ad un orfanello, seppure per poco tempo, è un'azione di pura pietà cristiana.
Io avevo il cuore straziato. Non avevo un posto da chiamare mio, non avevo una persona da chiamare mia, e nel tentativo disperato di sembrare un bambino facile da mantenere, non avevo neppure oggetti miei, perché non chiedevo mai niente. Né peluche, né libri, né vestiti, anche se ovviamente dei capi di abbigliamento venivano comprati per me, ma mai di mio gusto.
Mi sentivo galleggiare nel vuoto, senza identità, senza desideri.
Chi era quel bambino silenzioso che non chiedeva nulla? Che cosa avrei risposto, dal profondo del mio cuore, se mi avessero chiesto chi sono? Il mio nome è Vladislav. Puoi chiamarmi Vlad se vuoi. Non chiedo niente e do tutto, perciò non tengo nulla per me. Sono facile da amare, così facile che ti scorderai che ti sono accanto. Non piango e non strepito. Per il resto, non sono nessuno.
Perciò crebbi, continuando a non essere nessuno.
Iniziai ad essere qualcuno intorno ai tredici anni. Ero mortalmente stanco di non essere nessuno, non mi dava alcuna gioia, ma al contempo mi risultava davvero difficile finalmente provare ad essere qualcuno. Mi vergognavo dei miei desideri, anche dei più semplici, perché sentivo di non meritare niente.
Mi ripetevo che dovevo essere forte, che dovevo essere migliore degli altri, perché io ero Vladislav e un giorno avrei governato: era nel mio nome.
A volte, quando ero molto triste, pensavo che il mio nome non era stato scelto dai miei genitori, che non significava niente, che non era il mio destino, che era un nome senza amore.
Dietro la mia scuola c'era una porta che era sempre chiusa e fuori dalla porta tre gradini, tutti sbrecciate e con le erbacce che ci crescevano intorno. Io mi sedevo lì sopra... li adoravo, anche se non avrei saputo spiegare perché, se qualcuno me l'avesse chiesto. Forse li sentivo un po' come me: consunti, affondanti nella gramigna, con un passato anonimo e senza alcun uso. E quando mi sedevo su quei gradini mi sentivo meglio e peggio al tempo stesso... stoico e romantico, un eroe solitario lontano da tutti, pronto a piangere la sua solitudine senza vergogna, perché non c'era nessuno a guardarlo. Il mio nome è Vladislav. Il mio nome dovrebbe essere un altro, ma io non l'avrei mai conosciuto.
Altre volte ero fiero di me, mi permettevo di credere in un futuro. Ero molto bravo a scuola, avevo ottimi voti, ed ero ingenuo abbastanza da credere a quella balla che gli adulti ti dicono, che se vai bene a scuola allora andrai lontano nella vita. Hm. L'impegno del singolo non significa niente, se non si è disposti a sacrificare qualcosa... e non parlo solo del tempo, di quello studio matto e disperatissimo che ti fa perdere la vista, delle giornate dell'infanzia che scorrono via mentre fai i compiti e che non tornano mai più... intendo sacrifici di tipo diverso. La morale, per esempio: difficile andare lontano nella vita, senza buttare quella nel cesso.
Avrei voluto saperlo prima. Non avrei vissuto nel modo in cui ho vissuto.
Ma ora sono qui e... e ho imparato la lezione. E poiché ho imparato questa lezione tutti pensano che io sia un mostro, ma cosa avrei dovuto fare? Rimanere per sempre un bravo bambino?
Che poi, se ci pensi, i bambini non sono bravi. Si parla sempre così tanto di questa presunta innocenza... un'innocenza che non esiste in primo luogo. I bambini non sono che piccoli adulti, ancora devono imparare la bontà, l'altruismo, la minima decenza umana, nascono imbevuto di peccato, alla continua ricerca di stimoli piacevoli e senza nessun rispetto per gli altri.
Certi bambini imparano ad essere umani, altri invece non imparano mai.
Ero seduto su quei gradini quando un gruppo di ragazzini mi attaccò. Erano più giovani di me, ci credi? Sei ragazzini, fra i dieci e i dodici anni credo. O magari erano più vecchi di me e avevano solo un aspetto infantile. E delle mazze da baseball. Incredibile come i bambini sembrino istantaneamente più vecchi, quando hanno in mano delle mazze da baseball.
Non ti tedierò con lamentele, piagnistei, e con le cose orribili e volgari che mi dissero, era solo un esempio per farti capire cosa intendo, quando dico che i bambini non sono bravi.
Tornai a casa trascinandomi dietro una gamba come se fosse un pezzo di legno, ma non appena i miei genitori affidatari mi videro, mi drizzai come una tavola da stiro e finsi di stare benissimo, anche se mi fecero notare che avevo del sangue incrostato sotto alle narici. Fui sgridato per quello che mi era successo: mi dissero di non partecipare alle risse, perché avrebbero "rovinato il mio futuro" e mi avrebbero "trasformato in un delinquente". Nel frattempo, i ragazzini con le mazze da baseball stavano imparando che ero un ottimo bersaglio da picchiare a sangue, perché era mio dovere non combattere con loro (in quanto questo mi avrebbe "trasformato in un delinquente") ed ero sempre da solo, perciò ovviamente nessuno avrebbe fatto la spia né mi avrebbe protetto.
Non si fa amicizia con gli altri, a scuola, quando sei un secchione con un accento diverso dagli altri, cocco dei professori e nel bersaglio dei bulli. Che poi i bulli sono come gli squali, no? Quando sentono l'odore del sangue accorrono in massa, sbavanti e pronti a rendere la tua vita un inferno. Ero anche piccolino, un cosetto con la faccia rotonda, e portavo l'apparecchio per i denti. Hai mai provato a prenderle mentre cerchi di proteggerti l'apparecchio, perché sai che se si stacca anche solo un pezzo, la tua famiglia affidataria ti mette in punizione per sempre perché hai fatto spendere loro già troppi soldi del sussidio che prendono proprio per spenderli per te? Non si fa, cattivo bambino, non farci spendere i soldi che dovremmo spendere per te!
Io tiravo avanti, mi accontentavo dei miei bei voti scolastici, quando mi picchiavano rispondevo che io nella vita sarei diventato qualcuno di importante, mentre loro sarebbero finiti a lavorare in un fetido fast-food per una paga da fame.
Mi sbagliavo in un modo clamoroso, quei ragazzini violenti oggi sono persone piuttosto di successo, uno è addirittura un influencer credo, uno di quelli che vende prodotti inutili a persone a cui non servono sfruttando la sua bella faccia e facendo le smorfie in video apparentemente d'intrattenimento. Nessun giudizio al riguardo, da parte mia: bisogna pur vivere in qualche modo. E anche persone come lui esistono per insegnarci qualche lezione, io la mia l'ho imparata.
Oltre ad essere picchiato da ragazzini grandi e piccoli, come ho detto in quel periodo iniziai a cercare di definirmi come essere umano, una cosa che avvenne attraverso la mia prima missione: il paranormale.
Era piuttosto ovvio che un ragazzino solo e bullizzato, incapace di connettersi con anima viva, trovasse una particolare affinità con creature effimere e misteriose come i fantasmi. Iniziai a fare dei lavoretti per mettere dei soldi da parte, decisissimo a comprare uno di quegli strumenti che nei fumetti utilizzavano per segnalare la presenza di fantasmi, quelle macchinette che non avevo idea di come si chiamassero, ma che mi facevano impazzire. Non riuscii a risparmiare quello che era necessario, e non trovai neppure uno di quegli apparecchi da comprare, ma in compenso spesi una certa quantità di tempo nella biblioteca scolastica, leggendo tutto quello che potevo sulla criptozoologia, sugli alieni e, ovviamente, sugli spiriti.
La maggior parte delle persone sono inquietate dall'idea che una creatura invisibile le stia guardando, io invece ero elettrizzato: una creatura così speciale come un fantasma, che si fermava a fissare proprio me? Perché? Dovevo essere speciale in qualche modo, giusto?
Peccato che non riuscii ad incontrare nessun fantasma, ma che la voce che io fossi appassionato di tale creature si sparse fin troppo in fretta nella scuola e mi portò ulteriori insulti, ancora più variegati dei precedenti, e persino una strigliata da parte dei miei genitori affidatari, i quali credevano che io mi stessi intrippando in qualcosa di troppo occulto e pericoloso.
Per la prima volta, risposi.
Dissi che le loro preoccupazioni non avevano senso, che non avevo fatto niente di male, che studiare i fantasmi, o gli alieni, era come studiare la mitologia: non esistevano, proprio come Dio, e quindi che differenza c'era con loro, che andavano a messa la domenica? Non credevano forse anche loro nei fantasmi, nello Spirito Santo e in tutte quelle cose piene di superstizione?
Fui letteralmente preso a cinghiate per quello che avevo detto. Sei mai stato preso a cinghiate? Hai mai sentito il rumore che fa una cintura ripiegata in due, quando un uomo adulto, completamente cresciuto, te la sbatte contro la schiena e le natiche? Hai mai trattenuto il fiato, per non dargli la soddisfazione di gridare, mentre senti le costole che sfregano contro le sue cosce, mentre senti il cuoio che sbatte contro la tua pelle?
Ovviamente non mi adottarono, anzi, contattarono immediatamente l'agenzia dicendo che ero un bambino problematico, che non potevano tenermi, perché ero pericoloso. Pericoloso, perché avevo provato, per una volta nella vita, a tenermi stretta una cosa bella. Io ero pericoloso? Non loro che prendevano a cinghiate un ragazzino, no, io ero quello pericoloso.
Chiamarono l'agenzia di fronte a me, per punirmi: la donna parlava al telefono, mentre l'uomo mi teneva per le spalle, trattenendomi sul posto. Volevano che sentissi tutto, che ogni singola parola che dicevano mi si imprimesse in mente come una punizione. Dunque chi era pericoloso? Loro o io?
Io non volevo essere pericoloso, volevo essere amichevole, volevo essere amato... ma niente funzionava. Annullarmi per loro non funzionava, ma neppure provare ad avere una personalità. Arrivai alla conclusione che ero sbagliato, spezzato, uno di quei pezzi usciti male dalla fabbrica, buoni solo per essere buttati.
La mia famiglia successiva pensava che io fossi pericoloso. Avevano parlato con quella precedente, e con l'agenzia, e non avevano modo di sapere che in realtà ero mite come un agnellino, che tutta questa storia del "pericolo" non era altro che una punizione amplificata, per ricordarmi che non dovevo rispondere, non dovevo alzare la voce, non dovevo avere idee mie.
Di notte mi facevano dormire in una stanza chiusa a chiave, per paura che io scappassi, e levavano dalla stanza ogni lama, anche la più piccola, come se potessi fare del male a me stesso o agli altri. Non avevo mai neanche dato uno schiaffo in vita mia e ora venivo tenuto in trappola come un animale. Iniziai a sentirmi come un animale. A mangiare, come un animale: solo la carne mi dava piacere, carne e sale, e tutti gli altri sapori erano troppo deboli. Il mio mondo era ristretto, tutt'altro che arricchito, e il risultato fu che del sopravvissuto presi la forma.
Dopo i sedici anni, a scuola mi tagliai i capelli con le forbici che avevo trovato nel cassetto della cattedra. Gli altri ragazzini mi guardavano come se fossi pazzo. Io li guardavo indietro come se fossi pazzo, con gli occhi iniettati di sangue. Provai a tagliarmi un mohawk, sai, rasati ai lati e più lunghi al centro? Non era facile farlo con un paio di forbici, ma ero curiosamente bravo, e alla fine sembravo una iena, con una striscia di capelli più lunghi al centro dalla testa, e quelli ai lati molto corti. Fu grazie a quel taglio di capelli che scoprii cosa significava essere punk, perché fuori da scuola incontrai dei ragazzi più grandi, che complimentarono il mio taglio "fatto in casa". Quando gli dissi che non era fatto in casa, ma che invece era fatto a scuola, mi guardarono con una sorpresa che era più gioia che sgomento, facendomi un mucchio di complimenti.
Scoprii che cercavano di combattere le ingiustizie del mondo e che per farlo avevano bisogno di andare contro le regole della borghesia, che avevano bisogno di scioccarli, che avevano bisogno di tenergli testa con il look, con le parole, inventando una cultura tutta nuova.
Raccontai loro la mia storia. Mi mostrarono la loro pietà, mi dissero che se volevo potevo stare con loro, che ero un punk nell'anima, anche se ancora non lo sapevo.
Lessi tutto quello che trovai sul movimento punk, che non era ancora molto al tempo, e pensai che faceva per me. Non erano violenti, non erano cattivi, erano solamente strambi e combattevano per un mondo in cui anche essere come loro, strambo, era a posto: non volevano reprimersi, non volevano che tutti fossimo uguali, volevano che gli esseri umani pensassero, con quel cervello che si ritrovavano nelle scatolette craniche. E facevano musica. Oh, la musica!
La ascoltai dal vivo scappando di casa una sera, strappando la zanzariera che proteggeva la finestra della mia camera e buttandomi fuori. I miei genitori affidatari si accorsero di quello che stavo facendo dal rumore, ma a me non importava. Cosa potevano farmi, che non mi fosse già stato fatto? Ero stato picchiato, insultato, sputato, ero stato preso a cinghiate, quello che potevano farmi di peggio era uccidermi, ma in tal caso non avrebbero ottenuto alcun bonus monetario e forse sarebbero anche andati in prigione, o magari avrebbero solo pagato una penale, chi lo sa... comunque ammazzarmi non gli conveniva.
Mi slanciai fuori dalla finestra della mia camera massacrata, verso la libertà. Sapevo esattamente come arrivare al garage in cui quella sera i ragazzi punk suonavano, avevo pianificato tutto con estrema attenzione.
La band si chiamava Ratti Rossi e tutti portavano dei giubbini pieni di toppe e di cuciture, di spille da balia, e sugli stivali neri facevano bella mostra di sé scritte fatte con i pennarelli, rosse e arancio.
Erano appariscenti, erano potenti, e ai miei occhi di sedicenne erano bellissimi. Volevo essere come loro, non avere paura di essere me stesso, alzare la voce, smettere di stare ad occhi bassi nel mio angoletto sperando che nessuno mi notasse, che i bulli se ne andassero, che i professori mi dessero un buon voto e poi si dimenticassero di me.
Suonarono delle canzoni assolutamente orribili. Non avevo mai sentito, in tutta la mia vita, musica peggiore di quella: le loro chitarre distorte suonavano come gatti buttati in acqua, cantavano urlando, privi di qualsivoglia melodia, e se ne vantavano nei testi, dicendo che fare schifo era un diritto che loro rivendicavano. Io, però, non volevo fare schifo.
Ero combattuto, vedi... da un lato pensavo che loro avessero ragione, che l'idea di smetterla di essere pecorelle ubbidienti fosse ottima, ma dall'altro sentivo che la loro performance era un insulto all'arte. Anche se non avevo mai cantato in vita mia, ero sicuro di poter fare meglio di loro. Come minimo, ero certo di poter scrivere canzoni migliori. Ma non ero lì per insultarli, ero lì per fare il tifo per loro, e magari per farci amicizia, anche se erano pessimi come artisti. Come persone erano sicuramente migliori, ma anche fra di loro sentivo che quello non era il mio posto.
Dopo il concerto fecero un piccolo party, girava dell'alcool, un paio di spinelli, e i cantanti rimasero a parlare con i loro "fans", che poi in realtà erano amici, amici di amici e persino qualche conoscente di amici, perché parliamoci chiaro, chi altri sarebbe mai andato ad un evento del genere? Io provai ad integrarmi al meglio delle mie forze, ma scoprii che erano diversissimi da me, anche se all'inizio avevo pensato che fossimo uguali.
Loro parlavano di politica in un modo che non comprendevo completamente, e poi parlavano di relazioni, di viaggi, di feste, di droga, di donne e di uomini. Forse ero troppo piccolo, o forse ero semplicemente stato troppo a lungo l'ubbidente cocchino dei professori, ma mi sentii profondamente a disagio. Loro erano belli e liberi, ma distanti, oh così distanti da me, che ero un piccolo nerd che amava i criptidi. Loro si baciavano in bocca, con la lingua, e io non avevo mai tenuto per mano né un ragazzo né una ragazza. Loro parlavano di atti vandalici, si mettevano d'accordo per boicottare negozi, per lasciare graffiti con messaggi profondi, e io non avevo neanche mai avuto il coraggio di scrivere con il pennarello nero su un muro.
Volevo essere come loro, ma sapevo che non ci sarei riuscito. Vedi, ero un perfezionista, non potevo fregarmene di tutto, non era la mia attitudine: a me interessava di tutto. Non riuscivo a stare con la schiena appoggiata al muro, con una sigaretta, o ancora peggio con uno spinello, in mano a parlare con una ragazza di quanto fosse fico disobbedire.
Io ero una pecorella smarrita. Certo, una pecorella nera, ma sempre una di quelle creature fatte per pascolare sotto l'occhio vigile di un pastore.
Feci amicizia con i ragazzi punk. O meglio, visto che non si può propriamente definire amicizia, feci conoscenza dei ragazzi punk. Sono abbastanza certo che loro la definissero amicizia, senza sapere che, quando sorridevo, quando annuivo, dentro il mio cranio c'era un lago di disagio colloso e scomodo.
Quando tornai a casa l'indomani mattina, se casa di poteva chiamare il luogo in cui stavo, la mia madre affidataria pianse. Ne rimasi sconcertato.
Fino ad ora ero sempre stato abituato alle sgridate, alle cinghiate, ma il pianto? Lo reputavo un colpo basso terribile, peggio di tutto il resto. Spiegai che avevo bisogno di vedere un concerto, che non potevano tenermi prigioniero in quel modo per sempre, e provai ad essere quanto più tranquillo e diplomatico possibile. I miei genitori affidatari, che si aspettavano (da quello che l'agenzia gli aveva detto) un vandalo senza cervello, difficilissimo da gestire, mi guardavano a bocca aperta.
«Perché siete sorpresi?» Domandai «Pensavate che potesse farmi piacere, vivere come un animale?».
Acconsentirono ad allentare un po' il controllo che avevano su di me. Fu così che iniziai ad uscire con i ragazzi punk, stando bene attento, ovviamente, a non farlo mai sapere ai miei genitori affidatari. Sapevo che se mi avessero beccato ad andare in giro con quei teppisti, sarei tornato sotto strettissima sorveglianza, chiuso in camera mia fino alla maggiore età, e questo non era quello che volevo.
Piano piano, mi infiltrai nel gruppo dei ribelli. Ero bravo con le parole e sembravo disinvolto ai loro occhi, anche se in realtà mi sentivo continuamente fuori posto, teso, ansioso che anche solo una frase sbagliata mi avrebbe fatto diventare un escluso. È così che funziona, lo sai? Le persone più carismatiche, quelle che tu pensi essere disinvolte, sono tutte così: studiano ogni propria mossa, perché hanno paura di quello che potrebbe succedere se non lo fanno.
E io studiai le mie mosse. E alla fine mi fecero provare a cantare nella band: mi ero preparato per tutto il tempo, ero prontissimo. Avevo scritto una canzone, mi ero esercitato a cantarla finché alle mie orecchie non ero suonato perfetto. Ovviamente ero piuttosto spaventato dall'idea di sbagliarmi, di essere del tutto inadeguato e, come i ragazzini moderni dicono, "cringe". Ma anche se mi tremavano le gambe, cantai. E scoprii che quella era la mia strada, la mia vita...
Per la prima volta, mi guardavano tutti. E non mi guardavano con pietà, con disgusto o con schifo, mi guardavano come se fossi importante, interessante, come se fossi fico. Sentivo la profezia del mio nome che iniziava ad avverarsi, che mi portava verso il mio destino. Sarei stato una star. Un re. Il re del punk! Il re del rock 'n roll!
E poi ci trasferimmo.
Certe volte non importa quanto lavoro si fa, quanta fatica ci si mette per costruire il proprio castello di carte, c'è sempre qualcuno che te lo butta giù e tu non puoi farci niente.
E nel nuovo paesino in cui abitavamo, non c'era una band punk. A dire il vero, non c'era proprio nessuna band, di nessun tipo, perché era quel tipo di posto in cui tutto quello che è anche solo lontanamente "nuovo" viene guardato come se fosse un inganno del diavolo. Peggio degli amish, ti dico io. Almeno gli amish si costruiscono le case gli uni con gli altri, questi stavano ognuno per i fatti suoi, anche se facevano tutti le stesse, identiche cose.
In retrospettiva, so esattamente perché tutti si comportavano come si comportavano e so che non era colpa mia, ma ero così abituato a pensare che tutto lo fosse che, ovviamente, finii per pensare che il mio essere odiato da chiunque, in qualunque posto, fosse puramente colpa del mio aspetto. Iniziai a convincermi che, oltre al classico marcio che avevo dentro, ci fosse da mettere in conto la mia allucinante bruttezza, che repelleva chiunque.
Ero un adolescente del tutto normale, credo, ma è quello che credo ora, non quello che ai tempi pensavo guardandomi nello specchio. Sembra stupido, vero? Lamentarsi del proprio aspetto. Che cosa vanesia, penserai. Ci sono persone molto più brutte di te, la fuori, penserai... e avrai ovviamente ragione. Come ti ho detto, non ero così brutto, ero un adolescente come tanti, alto e secco, con la faccia lunga, smagrita dalla crescita troppo veloce, le mani troppo grandi per i polsi sottili, i capelli grassi, poco importava quanto li lavavo, e una quantità variabile di brufoli che mi partivano dalla fronte e mi arrivavano alle spalle e al petto, tanto che sembrava avessi costantemente la varicella.
Forse ero un po' brutto, ma poco importa... quello che importava è che il mondo attorno a me, in un modo o nell'altro, mi dava effettivamente ragione di dubitare della gradevolezza del mio aspetto. A guardare la faccia schifata degli insegnanti, ero un cesso a pedali. Non sapevo che erano disgustati da me perché: 1) ero più bravo di loro nelle materie che insegnavano, mettendoli in ridicolo di fronte agli altri adolescenti e 2) le mie magliette punkeggianti gli facevano venire il voltastomaco. Loro non sapevano conciliare questo ragazzo brutto e ombroso, con i capelli tagliati nella forma del più orribile mullet che avessero mai visto e con le maglie da teppista, con le parole che uscivano dalla mia bocca o che fluivano dalla mia penna: si immaginavano che dovessi indossare cardigan, maglioncini, camicie con colletti inamidati, ed essere biondo e ricco, non bruno e orfano. E per la mia diversità mi detestavano, perché rompevo lo status quo, ma io pensavo che fosse per colpa del mio aspetto.
Le ragazze non volevano uscire con me. Non che io gliel'avessi mai chiesto, ma non mi rivolgevano la parola, quindi non avrei potuto. Le uniche situazioni in cui respiravano nella mia direzione erano i compiti in classe, quando sfrontatamente mi chiedevano sottovoce le risposte corrette e io, furioso perché si ricordavano della mia esistenza solo in questi frangenti, denunciavo immediatamente al professore il tentativo di barare delle mie compagne, mettendole nei guai e vendicandomi.
Beh, era ovvio che poi non volessero uscire con me... non le biasimo. Ma non voglio neanche che qualcuno biasimi me per aver fatto esattamente la cosa giusta, e per aver rifiutato di essere uno zerbino.
Non ero più una pecorella, non dovevo esserlo. E sebbene a casa mi comportassi in modo irreprensibile, a scuola ero impossibile da bullizzare, perché ero uno dei ragazzi che reagiva.
Non usavo i miei pugni, non sapevo come combattere, però facevo la spia con gli insegnanti, con i bidelli, con qualunque adulto fosse interessato ad ascoltarmi. Dicevo loro che se mi avessero attaccato, lo avrei detto ai loro genitori. Accadeva di raro, ma di quando in quando dovevo pedalare fino alle porte delle loro case, battere le nocche sul portone, aspettare che le loro madre, o i loro fratelli maggiori, o i loro padri aprissero, e poi dir loro tutto.
Stavo bene, fisicamente, in quel periodo. Dentro ero accartocciato su me stesso, sempre più depresso, ma non lo avrei ammesso di fronte a nessuno, perché sarei suonato ingrato alle mie stesse orecchie. Non ero prigioniero, non avevo lividi addosso, ero... vivo, forse. Una parvenza di vita, in quel posto dimenticato da ogni divinità, dove non potevo parlare con nessuno, dove non potevo fare nulla che sembrasse strano agli occhi degli altri, ed essendo questi altri persone bigotte e sospettose, significava che dovevo solo starmene tranquillo. Anche starsene tranquilli era vista come una cosa strana, ma non abbastanza da costituire un pericolo.
Studiavo, studiavo notte e giorno, a perderci la vista. E su quei libri ci avrei voluto piangere, ma non avrei dato a nessuno la soddisfazione di entrare nella stanza e vedermi lacrimare su un problema di matematica, pensando che stavo piangendo perché era troppo difficile da risolvere per me.
E poi, cambiai di nuovo famiglia. Questi qui mi dissero che gli dispiaceva tanto, di non avermi potuto tenere, che non "eravamo compatibili", ma che mi auguravano tutto il bene nella vita. Avrei voluto insultarli con tutta la rabbia che avevo, ma annuii, dissi di aver capito, di non avercela con loro, che avevano fatto del loro meglio.
Mi morsi la lingua a sangue, mentre mi portavano via, pur di non mettermi ad urlare. Che razza di lagna, questo racconto, non è vero? Oh, povero orfanello incompreso da tutti, gne gne gne. Poverino. Se incontrassi il me stesso di quei tempi, lo afferrerei per la collottola come un gatto e lo scuoterei finché non torna in sé.
Non avevo capito niente della vita, com'era possibile? Nessuno mi aveva mai voluto un briciolo di bene, eppure io ci credevo ancora, di dover essere un bravo bambino, di dover "rispettare" gli altri, di dover piegare la testa. Razza di piccolo smidollato. Vatti a comprare un paio di pesi, gli direi, e se non hai i soldi rubali. Mettili un po' di muscoli su quelle ossa secche, non camminare gobbo, mordi se necessario, non darla mai vinta a nessuno. Sei meglio di loro, sei meglio di loro, sei meglio di loro.
E non gli credere, non gli credere quando Iago arriverà e ti dirà che sei un amico, perché tu sei meglio di loro e questo non possono sopportarlo, perciò ti odieranno. Non hai amici, giovane Vladislav, questa è la tua vita: fai qualcosa di grande del tuo futuro, ma smettila di cercare l'affetto o l'approvazione degli altri.
Iago Runner entrò nella mia vita come un treno. Era questo ragazzone enorme, largo due volte me, ricco sfondato, che aveva deciso di non lasciarmi in pace.
All'inizio fui, ovviamente, seccato dalle attenzioni di quel pericolo pubblico che mi ronzava intorno, ma piano piano imparai ad apprezzarlo. Sembrava volere genuinamente stare accanto a me, anche se non avevo mai fatto niente di particolare per meritarlo, e alla fine questa cosa mi conquistò. Io e Iago Runner diventammo amici.
Chi non ha mai avuto amici non può sapere come sia la gioia che si prova nel riuscire, finalmente, ad averne uno per la prima volta. È la più dolce delle droghe, il più potente dei sortilegi, dà alla testa come l'ebbrezza più sfrenata. Pensavo continuamente a tutte le cose meravigliose che avrei potuto fare con Iago, oppure dire a Iago, e la vita è senza dubbio diversa quando c'è il nome di qualcun altro nella tua testa.
Leggendo un libro, prima, avrei potuto godermelo solo io, ora invece potevo annotarmi le parti più divertenti e raccontarle a Iago. Lui mi regalò dei fumetti, un paio di riviste osé piuttosto bruttine che mi fecero avere un mezzo tracollo sulla mia moralità perché ero un ragazzino che per tutta la vita era stato indottrinato dai bigotti, e mi invitò persino al campeggio della sua famiglia. Ero al settimo cielo! E quando timidamente, nella notte scura del campeggio, dentro la tenda, raccontai a Iago della mia passione per i fantasmi e il paranormale, lui si lasciò immediatamente trascinare dalla cosa, metà spaventato e metà intrigato, e non posso descrivere della felicità che si prova nell'avere qualcuno che ti capisce.
Iago divenne la persona a cui volevo più bene al mondo, sarei morto per lui, e non come si dice in giro, tanto per dire: se fosse stato necessario, per salvare la sua vita, sacrificare la mia, mi non ci avrei pensato due volte a morire. Sarei saltato davanti ad un proiettile per lui. Avrei combattuto contro soldati addestrati.
Iago era rumoroso, invadente, a volte mi parlava sopra mentre cercavo di esprimermi, altre volte prendeva un po' in giro il mio aspetto, ma non me ne importava niente, perché lui era il mio amico, e chiunque avesse osato fargli del male se la sarebbe vista con me, il suo cavaliere, il suo fedele servitore, la sua guardia del corpo. Non che Iago ne avesse bisogno, di una guardia del corpo: aveva un'ossatura da triceratopo, il collo da toro, e applicando sulla sua testa arruffata un paio di corna lo si sarebbe potuto scambiare per il Minotauro.
Iago Runner, Iago Runner... ero così accecato dall'amore. L'amore, anche e soprattutto quello per i propri amici, è una cosa infida e insidiosa, perché ti fa credere di contare per qualcuno. Dopotutto, gli umani sono creature sociali, hanno bisogno di sentirsi parte di un gruppo, come le scimmie... qualcuno con cui saltare da un ramo all'altro, che ti aiuti a trasportare più frutta possibile. Quattro braccia di scimmia sono meglio di due, quattro occhi di scimmia vedono più predatori di due.
L'amicizia è un istinto atavico, scritto nel nostro DNA, e io obbedivo a quel richiamo disperatamente, sapendo che non avrei trovato nessun altro ad amarmi se non Iago, e non potevo lasciarmi sfuggire quell'opportunità.
Magro e lungo, arruffato, trotterellavo alle calcagna di quel giovanottone che pesava quasi il doppio di me, e mi sentivo protetto, felice, sicuro. Quando la sera mi sdraiavo sul letto, non erano pensieri di solitudine, di rabbia, a ronzarmi nella testa, ma l'idea che l'indomani avrei rivisto Iago e avremmo fatto qualcosa, non mi importava cosa, ma mi sarebbe piaciuto.
Iago era pigro, lasciava che fossi io a fare i compiti per tutti e due, ma io lo reputavo un onore. Un amico! Avevo un amico al mio fianco, che mi accettava nonostante fossi una cosa disgustosa e indesiderabile, un rifiuto umano, mi sembrava che fare i compiti per lui fosse il minimo. Scrivevo le poesie che leggeva alle ragazze con cui cercava di uscire, peccato per lui che le mie parole fossero assai più affascinanti di lui. Suppliva con i soldi, però.
Oh, non te l'ho detto? Iago era figlio di un generale importante, la sua casa era questa specie di gigantesco tempio del pulito, con la facciata tutta bianca come se fosse ricoperta di neve, e aveva più servitori di quanti brufoli erano sulla mia faccia.
Non biasimo assolutamente le ragazze che uscivano con Iago, questo voglio che sia chiaro. Insomma, è del tutto normale che, vedendo un maschio in possesso di così tante risorse, una femmina voglia metterlo alla prova per capire se è il compagno giusto per lei, se potrebbe essere un buon padre per i loro figlioli, i quali un giorno sarebbero cresciuti nel lusso. Ma Iago non era questo gran esemplare e le ragazze non rimanevano mai con lui, uscivano per qualche mese, magari arrivavano a baciarsi, magari qualcosa di più, ma poi basta.
Insomma, non meritano biasimo. Eppure al tempo le insultavo come la bestia che ero, per far contento Iago.
«Non sanno quello che si perdono!» Esclamavo, nel privato della stanza da letto di Iago «Quelle superficialotte pensano di avere meglio di te? Sono delle cretine».
Non erano delle cretine. Non erano assolutamente delle cretine, erano anzi molto più intelligenti di me.
Il tempo passò. Io e Iago eravamo sempre e comunque inseparabili, e ormai ero dipendente dal suo affetto, ma anche certo che fosse incrollabile, che saremmo rimasti insieme per sempre.
Divenni molto alto in quel periodo, ma ero così magro e brutto che non facevo comunque paura a nessuno.
Grazie ad una favolosa borsa di studio, alla fine delle superiori riuscii ad iscrivermi all'Università del Wisconsin a Madison, un posto assolutamente magnifico e assolutamente infestato di fantasmi.
Ovviamente Iago venne con me, si iscrisse nonostante la rabbia di suo padre, che avrebbe preferito per lui Harvard.
Iago non era una persona "da Harvard", comunque, e sapeva che avrebbe deluso suo padre, quindi scegliere l'Università del Wisconsin non fu per lui una rinuncia. Avrebbe avuto me ad aiutarlo a fare i compiti, come al solito, e a fargli da reggimoccolo quando cercava di sedurre le donne, perciò era scontato che volesse studiare dove c'ero anch'io.
Fu qui che incontrammo Minerva Spear.
La differenza di valore personale che separava Minerva e Iago è, più o meno, la stessa che potrebbe separare il cadavere di mezzo topo da Napoleone Bonaparte.
Ma sai qual è la cosa straordinaria? Che queste due persone, Iago che valeva come il cadavere di mezzo topo, e Minerva che valeva come e più di Napoleone Bonaparte, si parlavano. Si piacevano anche, a quanto pareva, e fecero amicizia in un batter d'occhio, grazie al loro interesse comune per i fantasmi.
Ero al settimo cielo, perché di quando in quando Minerva rivolgeva la parola anche a me.
Hai mai visto una persona così bella che ti fa iniziare a far fare ragionamenti strani? Un volto e un corpo così perfetti che ti domandi come sia possibile che grandi scimmie antropomorfe siano arrivate fino a questo punto, fino ad avere la forma di angeli?
Come possono gli esseri umani essere animali, se anche lei è una di loro?
Non mi ero mai innamorato prima di allora. Mai avevo anche solo osato pensarmi innamorato.
Lei però non mi guardava con schifo, mi rivolgeva la parola, si sedeva accanto a me e capiva cosa dicevo, quando aprivo bocca. Era la più brillante del suo corso. Era forse la ragazza più brillante della scuola.
Mi disse che eravamo amici. Quella notte non dormii per l'emozione.
Te lo immagini? Questo ragazzo patetico, che era stato sempre solo, questo sorcio orribile che tutti odiano, adesso era all'Università del Wisconsin, grazie solo alle sue forze, e aveva come migliori amici il figlio di un importante generale e la ragazza più intelligente della scuola. Mi prestavano persino del denaro, senza che nemmeno lo chiedessi, per comprare cose come gelati o fumetti. Mi dicevano di non sentirmi in colpa, che meritavo quelle cose, perché ero loro amico.
Ero arrivato così lontano, ero fiero di me.
Convinto di dover ripagare un debito con la vita, per avermi fornito cose tanto meravigliose, studiavo con impeto irrefrenabile, accumulavo successi accademici, e finii per diventare persino popolare a scuola.
Quasi non ci credevo, mi sembrava di galleggiare in una boccia di acqua calda: finalmente meritocrazia, finalmente ero guardato con rispetto.
Collaborai a diversi progetti con i senior, con i professori, con un laboratorio di ricerca. Cose che hanno poco a che vedere con questa storia. Non importa che tu sappia di quali trionfi si trattava, sappi solo che erano meravigliosi.
E poi Iago decise di rovinare la mia vita nel modo più definitivo possibile.
Ti ho già detto che tutti e tre amavamo i fantasmi, no? E questo significava, ovviamente, che facevamo quelle cose cringe, tipo andare a caccia di spiriti nel campus, durante le ore notturne, con tutta la strumentazione per rilevare campi elettromagnetici e cose così.
Ci divertivamo davvero un mondo. Davvero. Era bello ridere e spaventarsi, era bello ipotizzare, era bello nascondersi con i propri amici sotto una coperta, con una macchina fotografica a infrarossi di fronte a noi, cercando di fare silenzio, di respirare piano piano come topolini.
Una volta Minerva portò un libro che apparteneva a suo padre, anche se ci spiegò che in realtà era una di quelle cose che ci si passa di generazione in generazione, e dunque in realtà il libro era di un suo antenato. Era un libro di magia.
Accadde quel che accadde, un mese dopo congiurammo un portale. Pazzesco, vero?
Era una specie di enorme buco verde luminoso, che si era aperto in mezzo ad un prato, a pochi metri di distanza dal Bascom Hall. Era l'una di notte.
Ero eccitato ed attonito al tempo stesso, spaventato ed esaltato, perché finalmente era successo, finalmente un mondo nuovo si era aperto davanti ai miei occhi. Ero un uomo di scienza! Avrei misurato quei fenomeni, li avrei registrati, li avrei serviti al mondo e sarei diventato famoso, osannato, ricco, lo scienziato che ha aperto la porta del sovrannaturale.
Iago mi spinse dentro al portale.
Lo ripeto, più lentamente, nel caso non avessi compreso l'enormità di quello che mi è stato fatto, nel momento più alto, meraviglioso, magico della mia vita: Iago. Runner. Mi ha spinto. Dentro. Al portale.
Avevamo aperto il portale con un rituale complesso, di cui non avevamo capito tutti i rischi. Capii prestissimo che avevamo promesso agli spiriti un pasto.
E che quel pasto ero io.
Il portale si era richiuso alle mie spalle, separandomi dal mondo fisico, quello in cui continuavano ad esistere Iago e Minerva.
E ora sì, ora questo lo dico perché voglio essere compatito, voglio fare pietà, perché è la cosa più brutale che io riesca ad immaginare: fui spinto dal mio migliore amico, la persona di cui più mi fidavo al mondo, la persona che amavo di più al mondo, in una tana di spiriti che si nutrirono della mia carne. Mentre ero vivo. E supplicavo di morire.
Supplicai solo per una manciata di secondi in realtà, perché le corde vocali di un essere umano sono una prelibatezza per gli spiriti. Non lo sapevi? Sono proprio ambite, litigano fra loro per averle.
Fui conteso, scarnificato, la mia pelle, i miei muscoli sostituiti piano piano, goccia a goccia dall'ectoplasma. E sai perché "goccia a goccia", hm? Perché i fantasmi non sono serpenti, che ti mangiano per intero, e non sono iene, che ti mangiano a grandi bocconi e non lasciano di te neppure le ossa, i fantasmi ti consumano a poco a poco, e tu senti tutto il dolore, ti sembra che duri per sempre.
La carne non è tutto, nel Mondo degli Spiriti, e sono sopravvissuto attraverso una simbiosi con l'ectoplasma libero presente intorno a me. È un processo che si chiama "ectocontaminazione". Quando l'ectocontaminazione è molto severa, quello che rimane alla fine è, ovviamente, molto poco umano.
E questo sono io. Hehe. Ovviamente sono io, no? Ecco da dove vengono i miei poteri! Sono fighi, vero? Mi sono solo dovuto fare divorare vivo da un branco di esseri famelici e sconosciuti che mi hanno, giustamente, traumatizzato violentemente e dato attacchi di panico per anni.
Ora dirai: "ah, sì, ecco perché hai deciso di diventare cattivo, vuoi vendicarti con il mondo che ti ha fatto questo, ma in particolare con quel pezzo di sterco di Iago Runner!".
Non ancora. Non ancora, sai?
Perché io te l'ho detto, che ci ho provato con tutto me stesso a rimanere calmo. Che non sono il cattivo di questa storia.
Perciò sai cosa ho fatto, quando finalmente il mio processo di trasformazione si è concluso, e mi sono ritrovato ad avere favolosi poteri, ma il più devastante PTSD immaginabile?
Non mi sono vendicato. Avrei potuto. Non l'ho fatto.
Sono solo andato via, più lontano che ho potuto da Iago.
Ho fatto cose con i miei favolosi poteri, ho trovato altri modi per diventare ricco, per diventare famoso, per diventare rispettato.
Hai presente quel detto cinese, "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico"? Ecco, io non pensavo a quello. Io non ci volevo pensare al mio nemico, lo volevo dimenticare, me lo volevo togliere dalla testa, mi aveva fatto troppo male. Sobbalzavo ogni volta che qualcuno diceva la parola "Iago". Mi sarei messo ad urlare se qualcuno avesse citato un portale. Finii per avere reazioni di paura irrazionale così estreme, a qualunque menzione sgradita, che fui costretto a chiudermi nel mio castello da solo e fare innumerevoli sedute di terapia, che dovetti comunque smettere, perché ovviamente il mio psichiatra non mi credeva, e si sa che la terapia non funziona se il paziente è costretto a mentire.
Così restai solo. Nel mio castello. Lavoravo, certo, ma non avevo amici e facevo tutto a distanza. Spedivo lettere cartacee, spedivo messaggi digitali, ebbi persino un assistente personale ad un certo punto, ma lo licenziai perché ero completamente terrorizzato dall'idea che mi tradisse e mi uccidesse nel sonno.
Passarono gli anni. Migliorai un pochino. Iniziai ad uscire, a vivere di nuovo. Che fai, guardi il modo in cui mi tamburello la mano sulla coscia? Mi rende nervoso raccontarti queste cose. Sono molto private, ma sono necessarie perché tu capisca quello che mi hanno fatto, perché tu capisca che non sono cattivo.
Feci uscire un cd, con della buona musica che avevo scritto, composto e interpretato io. La musica mi piace ancora, sono ancora bravo.
Fu un successo. Mi sentii una persona capace. Mi sentii… nonostante tutto, vivo.
Mi era successo di tutto, ero passato attraverso l'inferno, ma ero riuscito a rialzarmi. Non ero sano di mente, nessuno lo sarebbe stato al posto mio, ma stavo facendo del mio meglio. Piangevo di meno. Il mio dolore si era trasformato in estro creativo, era fluito in musica.
Quando il peso nel mio cranio diventava insopportabile, quando le lacrime bruciavano dietro le palpebre, incollandomi le ciglia le une alle altre, mi ricordavo che lì fuori c'erano migliaia di persone che mi amavano, che amavano la parte di me di cui raccontavo nella mia musica, che era il vero me.
Il mezzo-fantasma nei miei testi non era una metafora, ero io. Ed era anche una metafora.
Mi rimisi in forma, più che potevo. Volevo essere bello, splendente, il meglio possibile, per me e per gli altri: un faro che risplende nella notte più buia, qualcuno a cui pensare quando ti senti solo, a cui aggrapparsi fra le onde burrascose della vita.
Odiavo la mia brutta faccia, quella che mi aveva fatto rifiutare così tante volte nella vita, perciò la cambiai, abbastanza perché Iago Runner non mi riconoscesse se mi avesse visto in televisione. Avevo i soldi necessari a pagare i migliori chirurghi plastici d'America, e non avevo paura del bisturi.
Alla fine di questo processo, quando mi guardavo nello specchio non vedevo più il volto dell'uomo che avevo imparato ad associare alla vittima di un trauma, alla bruttezza, all'orrore di una vita in cui nessuno mi aveva voluto. Non ero più neanche quel tipetto magrolino, che è facile immaginare mentre viene bullizzato, perché la palestra mi aveva radicalmente trasformato: il mio corpo era solido, scolpito, attraente. Le donne erano tutte ai miei piedi: ricco, bello, famoso, rinomato per la mia intelligenza. Continuavo a collaborare con laboratori scientifici e università.
Avevo tutto, tutto, tutto.
Tranne un amico.
E non ne avrei avuto uno mai più, perché avevo imparato la lezione fin troppo bene. Ma non mi importava: arrivato a quel punto ero stanco marcio di cercare comprensione negli altri, volevo godermi tutte le cose straordinarie che avevo, e volevo riposare.
E fu allora, proprio allora, che incontrai i figli di Iago Runner. Una femmina e un maschio.
I FIGLI di Iago Runner.
Ebbi un crollo assoluto, mi ritirai nel mio castello, urlai fino a rimanere senza voce. Come avevano fatto i Runner a tornare nella mia vita? E sì, dico I Runner e non IL Runner, perché Iago e Minerva si erano sposati, avevano figliato, e ora la loro dannata progenie era tornata a rovinarmi la vita.
E sapete qual è la cosa assolutamente assurda, fuori di testa, impossibile?
Che il maschietto, Danny, aveva i miei stessi poteri. Li doveva aver acquisiti in un modo simile, immaginai, ma non mi feci impietosire: non mi sarei avvicinato ai Runner mai, mai, mai più per il resto della mia vita.
E indovina… indovina… che cosa fece, Danny Runner? Mi chiese di diventare il suo mentore.
Il suo mentore. Di insegnargli le cose. Il suo mentore.
Ovviamente gli dissi di no, stavo ancora cercando di rimettere insieme i cocci di quel che rimaneva della mia psiche fatta a pezzi e sparpagliata, ma lui era testardo… lui È testardo quanto suo padre. Insistette. Ogni volta che ci incontrammo.
E ci incontrammo troppo per i miei gusti.
E le mie performance subirono un calo drastico. E il mio sonno fu disturbato in un modo terrificante. E io lo odiai, lo odiai, lo odiai. Ma a lui non importava, perché come il suo patetico padre traditore prima di lui, anche lui voleva una e una cosa sola: usarmi. E poi scartarmi come un giocattolo rotto, presumo. Ma soprattutto usarmi.
«Oh, mister Korolkrovi, hai i poteri da molto più a lungo di me, io sono solo un ragazzo, ho bisogno di aiuto!».
Anche io avevo bisogno di aiuto. Ne avevo avuto bisogno per tutta la mia vita, nessuno me l'aveva dato. Suo padre mi aveva reso meno che umano e ora quel moccioso maledetto veniva a piangere da me?
Ecco, ecco! Questa è la parte incriminata! Questa è la parte che stavi aspettando! La parte in cui perdo la testa e non ce la faccio più.
No, non ho, come in realtà avrei dovuto, ucciso il ragazzino immediatamente. Ho solo fatto in modo che non venisse più a casa mia, che non me lo ritrovassi più sulla soglia. Non gli ho fatto male.
Ma lui ha mandato sua sorella.
Delphine Runner. Delphine Runner con armi per catturare i fantasmi, palesemente sul piede di guerra, venuta a casa mia per catturare me.
E ora dimmelo tu, se non impazziresti al posto mio! E ora dimmelo tu, se non andresti nel tuo caveau blindato, se non apriresti la cassa più preziosa, se non prenderesti l'Anello e la Corona, se non li indosseresti!
Volevo spaventare quella sciocca ragazzina, farle vedere che avevo più potere di qualunque altro fantasma al mondo… non mi avrebbe mai potuto catturare, se avessi indossato la corona e l'anello, non ci sarebbe riuscita.
Ma quando indossai la Corona, fu come se i miei occhi si fossero aperti per la prima volta nella vita.
Di cosa avevo paura? Mi chiesi. Perché temevo l'idea di uccidere? Perché uno come me, che aveva fra le mani il più grande potere sulla terra, voleva solo spaventare quella ragazzina insolente, infingarda, ineducata, inutile che stava cercando di catturarlo?
E così salii al piano di sopra. E la fronteggiai. E la polverizzai.
Mi biasimi, adesso? Pensi ancora che sia stata una reazione esagerata? Ho visto gente sparare ad altra gente per molto meno.
E per buona misura, ho deciso di eliminare anche il fratellino, perché non torni mai più.
Ho ucciso Iago. Ho rapito Minerva. Il ragazzo è scappato.
Il ragazzo corre ancora. Ma lo prenderò… e allora, finalmente, forse le voci nella mia testa avranno pace. Forse smetteranno di dirmi che sono stato codardo.
Non può esistere il vero potere, senza prima il totale annientamento del proprio passato. Io annienterò Danny Runner.
E tu puoi aiutarmi se vuoi… dimmi solo se l'hai visto, da qualche parte. Dov'era? In che direzione è andato?